Società di fatto tra coniugi

Accade con una certa frequenza tra coniugi: lei casalinga, anche se con figli a carico, si presta a collaborare nell’azienda del marito.

Paola fa causa ad Emanuele perché dopo aver collaborato per anni nella società del marito, sopraggiunta la crisi coniugale, cita in giudizio l’uomo al fine di vedere accertata e dichiarata la sua qualità di socio occulto. Il Tribunale rigetta la domanda della donna, perchè dai fatti di causa e dalla documentazione prodotta, non si assumono elementi concreti ed inequivocabili, indispensabili per conferire alla moglie la qualifica di socio occulto.

La moglie ricorre in Appello, la questione su cui la Corte è chiamata a pronunciarsi attiene alla sussistenza o meno dei requisiti qualificanti la nozione giuridica di socio; neanche la prova testimoniale è sufficiente per indurre il Giudice ad accogliere le ragioni della moglie. La testimone riferisce : sono stata presente a colloqui di assunzione dei dipendenti, tenuti sempre dal marito, ma sempre alla presenza della moglie.” In definitiva, tra gli elementi indiziari, rilevatori della qualifica di socio sono in genere: il pagamento di debiti dell’impresa, prestazione di fideiussioni, redazione di lettere che rappresentano la società, il potere di gestione, la partecipazione agli utili o alle perdite. Insomma, è socio occulto in un’attività commerciale, colui che fornisce un apporto di sostegno all’attività dell’impresa qualificabile come collaborazione per il raggiungimento degli scopi sociali.

Insomma, quando una moglie contribuisce all’avviamento dell’impresa del marito (e capita di frequente) non significa che prende parte alla compagine sociale, né tantomeno che si possa applicare lo schema del rapporto di lavoro. Secondo l’orientamento prevalente: l’attività eventualmente prestata in favore dell’aziende del marito, in caso di vincolo coniugale, deve presumersi resa in adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà coniugale e non per fini di cointeressenza lucrativa.

A prescindere dalla valutazione del caso concreto, ed in considerazione della frequente collaborazione delle donne in favore delle imprese dei mariti, ritengo sia una forte ingiustizia, sottovalutare il lavoro delle donne, comparandolo come semplice “adempimento dei doveri di assistenza e solidarietà coniugale”: un ingiustificabile svilimento del lavoro femminile e un’offesa alla dignità delle donne.

Un appello alle donne perché non si sobbarchino della crescita dei figli e della collaborazione nelle attività commerciali dei mariti: occorre mettere subito le cose in chiaro.

Infine, una domanda: come mai non accade mai il contrario, un uomo che aiuta la moglie nella sua impresa, a titolo di “solidarietà coniugale”?

Avv. Simona Napolitani

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